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Relativo alla pubblica amministrazione, a come funziona la PA, o a come vorrei che funzionasse.

G Suite for Education (parte 1)

Beh, come tutti al mondo ormai sappiamo, quella che era l’emergenza coronavirus si sta rivelando un fenomeno lungo. Le scuole, con tempi di partenza molto diversi una dall’altra e con velocità completamente disomogenee, si sono organizzate per cercare di portare avanti la didattica tramite la rete Internet.

Si sono subito presentati parecchi problemi, come ad esempio: il dover scegliere una soluzione software capace di supportare la didattica a distanza, la formazione degli insegnanti, la fornitura di hardware agli insegnanti e agli studenti che ne sono sprovvisti, la scelta di hardware e software per gli alunni, il problema del supporto alle famiglie che si trovano a dover seguire i figli a casa oltre che a dover lavorare, e altro ancora.

In una scuola con la quale ho a che fare è stato scelto di adottare la soluzione di Google che si chiama «G Suite for Education». È sostanzialmente un agglomerato di servizi già noti principalmente composto da: la posta elettronica di gmail, i documenti di testo e i fogli elettronici di docs, lo spazio disco su drive, il calendario calendar, la rubrica contacts, la lavagna jamboard e, naturalmente, le video chiamate tramite Meet (ex Hangouts). Il tutto con la necessità di operare con un dominio Internet gestito tramite Google, il quale, Google, promette di confinare tutte le comunicazioni (non si può accedere ad una video chiamata o mandare un email o condividere un file se non si ha un account Google con un indirizzo email di quel dominio) e di non spiare per nulla i dati, i quali sono tutti di proprietà della scuola.

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Lettera aperta alla sindaca Appendino

Cara sindaca,
le scrivo per descriverle una situazione che, almeno in parte, le sarà nota, ma con alcuni spunti che, mi auguro, siano utili.

Sono un suo concittadino da quasi due decenni; non conosco granché la Torino del vecchio millennio, quindi limiterò le mie digressioni a questo.
Le scrivo principalmente perché Torino è ormai una città invivibile, e non mi riferisco solo alle problematiche legate all’amministrazione a volte sfuggente, al tempo impiegato negli spostamenti o alla qualità e quantità di negozi o parchi; mi riferisco in maniera molto più concreta all’aria che respiriamo, all’aria che ci sta uccidendo tutti un po’ alla volta.

La mia giornata comincia con il non poter aprire la finestra di casa al mattino perché abito ad un quarto piano su una via abbastanza trafficata di Torino sud. Già da prima delle 7:30 del mattino, l’aria che si respira a balcone, è carica di smog. Quando scendo di casa per portare i bimbi alla vicina scuola, ad appena 300 metri, mi chiedo immancabilmente come mai siamo arrivati a questa situazione. Una situazione che non è solo fastidiosa, ma proprio dannosa: i miei figli, giusto per fare un esempio, sono ormai entrambi soggetti a forti allergie, quel tipo di malattie che prendono l’abbrivio a febbraio e marzo, raggiungono l’apice in primavera e scemano solo ad ottobre. C’è da chiedersi come sia possibile manifestare allergie alle graminacee (giusto per fare un esempio) se nell’aria c’è solo smog. Eppure la scienza ha spiegato che questo clima favorisce lo sviluppo di allergie respiratorie di questo tipo.

Dopo aver portato i bimbi a scuola, vado a lavoro. Visto che non ci si può lamentare e basta, ma si deve contribuire a migliorare (o a non peggiorare) la situazione, vado spesso in bici e lascio l’auto sotto casa. Faccio meno di 5 chilometri attraversando Torino sud da est a ovest. Ci sono vari percorsi ciclabili, come via Onorato Vigliani, corso Settembrini e corso Tazzoli. In alcuni casi la pista ciclabile è, diciamolo, piuttosto farlocca, come quella ricavata sui marciapiedi di via Vigliani o di corso Orbassano (dietro la FIAT), oppure è così da rattoppare che non ci si può neppure avvicinare, come quella sul lato sud di corso Settembrini, oppure va percorsa piegando la testa in giù per non battere la testa sui rami degli alberi, come su corso Tazzoli, o addirittura è stata rimossa per permettere alle auto di parcheggiare comodamente in divieto sul marciapiede, come su una parte del lato nord di corso Settembrini. Ma una cosa accomuna tutti questi percorsi ciclabili: l’aria irrespirabile.
Da qualche tempo vedo ciclisti che usano la mascherina, quella seria, che dicono filtri anche le PM10. A dire il vero ce ne sono anche con la mascherina degli imbianchini, che è un evidente palliativo. Ma mi domando: ci si può ridurre ad andare in giro in bici con la maschera? Siamo veramente arrivati a questo punto? Possibile che non ci sia altra soluzione?

La soluzione ovviamente ci sarà, o magari già c’è, ma di certo qui non è applicata. Ed è chiaro che il problema è complesso e la soluzione deve essere articolata e coinvolgere molte parti, ma è altrettanto chiaro che lei ha ricevuto il mandato dai suoi cittadini per risolvere questo problema, non solo questo, ma anche questo.
In questi anni ho visto nascere la metropolitana, ho visto incrementare l’utilizzo degli autobus a metano e, più di recente, elettrici, ho visto aumentare la diffusione del teleriscaldamento, ho visto nascere servizi di bici e auto in condivisione, queste ultime anche elettriche. Ho visto anche altre azioni volte a mitigare il problema dell’inquinamento. Ho visto anche azioni puramente di facciata, come le domeniche ecologiche o la sezione di vigili in bicicletta.

Ma tutto quello che ho visto (e certamente anche altro di cui non sono al corrente) non ha sortito l’effetto cui puntava. Non so se sia vero, ma si dice che ogni anno a gennaio o febbraio, si raggiunga il tetto consentito di sforamenti della soglia di PM10; si dice che le colonnine per i rilevamenti siano messe in posizioni tali da rilevare meno inquinamento; si dice che le soglie di tolleranza vengano alzate periodicamente. Non so se siano tutte falsità, ma se mi devo fidare del mio naso, al di là di quale scala venga usata per misurare la qualità dell’aria, la situazione è pessima.

Lei adesso copre questo incarico da quasi tre anni. È arrivata lì e ha certamente trovato un’eredità non facile da gestire, tra l’altro con tutti i vincoli di quello che un sindaco può e non può fare, ma non è riuscita a risolvere questo problema. Adesso è troppo tardi per concordare piani a lungo termine: non avrebbe senso dire — faccio due esempi a caso — che la nuova metropolitana verrà costruita in fretta e raggiungerà Piossasco in 15 anni togliendo dalla strada una grossa parte del traffico su gomma che attanaglia corso Orbassano; non avrebbe senso dire che nel giro di 5 anni il parco autobus cittadino sarà completamente convertito all’elettrico. Quello che serve è un’azione immediata e drastica che permetta ai suoi cittadini di uscire di casa e dimenticarsi che un tempo doveva dotarsi di maschere per andare in giro nel traffico.
E se la soluzione è lavare le strade con il detersivo ogni notte, allora da domani notte si deve cominciare; e se la soluzione richiede la concertazione con tutti i sindaci della città metropolitana, allora domani si preoccupi di convocare tutti attorno ad un tavolo per trovare subito una soluzione; e se la soluzione è impossibile da realizzare senza un accordo a livello regionale o nazionale, faccia tutto che quello può perché questo si realizzi al più presto.

E se non sa quale sia la soluzione, allora trovi i cervelloni in grado di trovarla.

La lascio con un ricordo: qualche mese fa vidi un documentario su Barack Obama, nel quale lui diceva qualcosa del tipo: «ogni volta che i problemi da affrontare sono di facile soluzione, questi non arrivano neppure al mio tavolo. Il mio compito è gestire i problemi complessi.»
Lei è «solo» la sindaca di Torino, non deve preoccuparsi dei problemi degli stati uniti d’America, ma facendo le dovute proporzioni, anche lei deve preoccuparsi dei problemi grossi, come quelli che determineranno se i suoi cittadini, tra vent’anni, saranno tutti ricoverati in qualche reparto di pneumologia.

Torino Map-Party: non mi è parso poi così legato all’«open data»

Sono stato al Torino map party organizzato da Piemonte Visual Contest (Consiglio Regionale del Piemonte, TOP-IX e CSI Piemonte) e dalla Fondazione Torino Musei nel giorno dell’«open data» (il 21 febbraio 2015).

L’evento aveva come scopo dichiarato quello di «mappare insieme alcuni percorsi storico-artistici torinesi» con le app Mapillary e Wheelmap. E in effetti così è stato: siamo stati brevemente edotti sul funzionamento delle app in questione e ci siamo dispersi per la città, a gruppi, secondo vari percorsi prestabiliti.

Mapillary è un servizio online di una azienda svedese che permette alle persone di pubblicare con licenza cc-by-sa foto georeferenziate. L’app permette di scattare foto a ripetizione e di inviarle al sito web, poi con il browser è necessario controllarle per sfocare le parti che possono generare problemi (almeno le targhe di auto e i visi delle persone). Una volta che le foto sono a posto, il sito cerca di collegarle alle altre foto del database per riproporre una visita della città (o, in generale, del luogo) visuale. Se le foto sono sufficienti allora sarà possibile visitare un percorso della città rimanendo al computer.
L’azienda Mapillary non lo fa gratis: anche se le foto sono distribuite con quella licenza e rimangono accessibili (si spera), i dati che vengono estrapolati non sono pubblici. Ad esempio l’azienda può cercare di recuperare dalle foto i cartelli stradali, rilevando i limiti di velocità o i civici delle abitazioni, per rivendere queste informazioni.
Da quanto ho capito, alcune informazioni prese dalla singola foto (dalla parte EXIF, non quelle estrapolate da Mapillary) sono passabili automaticamente a OpenStreetMap. L’incredibile collegamento richiede che l’utente inserisca nell’app sia le proprie credenziali di Mapillary, sia le proprie credenziali di OSM (che, a seconda da come viene implementata l’autenticazione, può voler dire che si consegnano le credenziali di OSM ad una azienda terza).

Wheelmap è invece interamente un servizio che sembra veramente pubblico: i dati sono quelli di openstreetmap e prevede la catalogazione dell’accessibilità per persone che si muovono con la sedia a rotelle, o comunque con limitata mobilità. L’idea che ovunque si vada, l’app mostra i PDI di OSM di un colore specifico: grigio per non catalogato, verde per completamente accessibile, giallo per parzialmente accessibile, rosso per non accessibile.

La cosa veramente triste di questo incontro è stata la motivazione che dovrebbe indurci al partecipare a questa raccolta di dati: più volte è stato disegnato google come grande antagonista che grazie ai soldi compra le aziende che hanno i dati e ci fa fantastiche applicazioni (google maps e street view) contro il quale noi piccoli impotenti possiamo fare qualcosa nonostante lo scontro sia titanico. E cosa possiamo fare? Chiaro: popolare i dati di Mapillary e Wheelmap.

Perché ritengo che questo approccio sia semplicemente penoso? Perché non è assolutamente vero che noi siamo dei poveri tapini che, messi assieme, possono fare qualcosa. No, non è vero per nulla. Siamo qui sotto l’egida della Regione Piemonte, e allora perché non chiedere: che cosa sta facendo la regione Piemonte in questo senso? Perché non rende completamente fruibili i propri dati, magari mettendoli proprio su OSM? E che ci vuole a organizzare delle squadre di persone che vadano in giro con il telefono tutto il giorno seguendo percorsi predefiniti per ottenere le foto che di certo mancano al catasto? Siamo un paese in recessione, abbiamo una percentuale elevata di disoccupati, sicuramente molti accetterebbero di fare questo lavoro ad un prezzo decoroso. Cara regione: fai una bella leggina che dice: tu che sei senza lavoro o in cassa integrazione, se vuoi uno stipendio minimo, devi in cambio svolgere dei lavori. E tra questi lavori ci metti pure quello di aggiornare le mappe e magari quello di aggiungere le foto. Ovviamente non lo puoi fare su Mapillary, visto che è privato, ma se ti metti d’accordo con altre regioni, e visto che possiedi quell’azienda informatica chiamata CSI Piemonte, perché non ti organizzi per realizzare un servizio decente, basato su software open source, che rilasci come software open source, e al quale permetti l’accesso partecipativo da parte di tutti i cittadini?

Beh, io una domanda così non l’avevo in mente, ma ne avevo in mente la prima parte e l’ho posta. Mi hanno risposto, dal «palco» sia un esponente del consiglio regionale, sia un secondo relatore. Il primo ha riferito che in effetti eventi come quello attuale sono la scintilla di quanto la pubblica amministrazione sta facendo (mi viene da ridere al solo pensiero che questa sia veramente la scintilla: persone che regalano dati ad una azienda straniera sarebbero la scintilla della liberazione dei dati della PA); il secondo ha fatto notare che più che nelle alte sfere i problemi sono alla base: i geometri che hanno questi dati sono molto gelosi e non li vogliono rendere «aperti» (e inoltre non li aggiornano neppure al computer: ricordano a memoria tutte le cose più evidenti senza dover ricorrere al computer, quindi perché dovrebbero perdere tempo ad aggiornare i dati?)

In tutto questo, ho avuto la fortuna di fare parte di un gruppetto che aveva persone molto preparate sulla storia della città, e sono stato molto contento di aver potuto vedere qualche angolo interessante del quale ero completamente all’oscuro, come il passaggio che arriva da piazza San Giovanni al Palazzo Reale, ma non quello che arriva al cortile davanti il Palazzo Reale, bensì quello ospita la caffetteria di Palazzo Reale.

A proposito, le mappe che segnano i luoghi da mappare, nonché i punti pubblici WiFi, sono sul sito di Palazzo Madama.